Il tempo del racconto

Il tempo del racconto

Dal 18 al 23 febbraio ad Ariccia, Il portoghese don José Tolentino Mendonça, teologo, poeta e narratore condurrà gli Esercizi spirituali di papa Francesco e dei membri della Curia romana. «Elogio della sete»: è questo il tema delle meditazioni. Nato nell’ isola di Madeira, la terra dei fiori, don José abita e lavora nella capitale, Lisbona “un territorio di frontiera, vecchia città d’ Europa che si apre all’ ignoto: forse anche questo è il suo fascino”.

Ho letto vari interventi di don Tolentino Mendonça e, nelle sue parole, ho trovato una conferma del cammino intrapreso da noi di Synesio: «Abbiamo un gran bisogno di racconti: sono modi di conoscenza più efficaci, sono fatti del tessuto del vissuto, creano dei meccanismi di identificazione e ci coinvolgono interamente, cervello, cuore, memoria, inconscio. Si può dire che raccontare storie ha una funzione spirituale. Non è un caso che la Bibbia sia un magnifico serbatoio di storie! Pensiamo alle parabole, alle tante storie di vita quotidiana, con personaggi che hanno sorrisi e lacrime. Noi, tramite loro, possiamo dire: “Sono io il cieco, sono io Zaccheo! La Samaritana? Sono io! La Bibbia è una storia incarnata».

Anche la sua visione per una spiritualità del presente mi trova concorde. Afferma: «Abbiamo costruito esperienze religiose con troppi muri: un convento, un monastero, una parrocchia e i suoi muri e la sua autosufficienza. E per questo paghiamo un costo in solitudine e in poca efficacia missionaria. Una parrocchia, un convento, un monastero dovrebbero essere antenne, sonde che catturano la voce del mondo. Talvolta le nostre comunità sono sorde, hanno dimenticato questa risorsa di vita che è l’incontro con l’altro, e con l’altro più fragile, più malato, più bisognoso».

Perciò come rendere il mondo un luogo della Parola? Ecco cosa ricorda don José: «Il Signore ci domanda: “Dov’ eri tu quando io avevo fame e sete, quando ero in prigione, quando avevo bisogno di aiuto? Dov’ eri? Questa è una domanda ardente, incancellabile. Dobbiamo recuperare una capacità di attenzione alla realtà che non abbiamo più e, nell’ incontro con l’altro, riconoscere Cristo nel mezzo della storia, altrimenti il mondo diventerà un luogo di silenzio».

Ecco alcune importanti parole con alcune sue semplici frasi a commento.

Pastori

“Sembriamo, in certi momenti, degli scrittori di guide di viaggio per luoghi che non abbiamo visitato mai”.

Profezia

“I momenti in cui non si conosce sono più interessanti”.

Missione

“Quando ci rapportiamo con l’ignoto esso si rivela”.

Speranza

“Non son i viaggiatori che trovano le strade ma sono le strade che trovano i viaggiatori”.

Leggere

“L’arte di leggere non è altro che l’arte di amare”.

 

Biografia

José Tolentino Mendonça, sacerdote e poeta, è una delle voci più autorevoli e note della cultura portoghese. Attualmente è Vice-Rettore e Docente dell’Università Cattolica di Lisbona e consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. Le sue poesie e i suoi saggi sono stati tradotti in molte lingue e nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia. I suoi principali rimandi letterari sono La Bibbia e il suo conterraneo Herberto Helder.

Io sono Gerusalemme

Nell’Auletta dell’Aula Paolo VI, mercoledì 6 dicembre 2017, papa Francesco salutava i partecipanti alla riunione del Comitato permanente per il dialogo con personalità religiose della Palestina,
promossa dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. La Chiesa Cattolica è sempre contenta di costruire ponti di dialogo con comunità, persone e organizzazioni; e con i rappresentanti palestinesi, intellettuali e religiosi, è una vera gioia. Dice il papa: «La Terra Santa è per i cristiani la terra per eccellenza del dialogo tra Dio e l’umanità. Un dialogo culminato a Nazareth tra l’Angelo Gabriele e la Vergine Maria, avvenimento al quale fa riferimento anche il Corano. Il dialogo continua poi in maniera singolare tra Gesù e il suo popolo in rappresentanza dell’umanità intera. Infatti, Gesù è il Verbo di Dio e il suo parlare agli uomini e alle donne è, per riprendere le parole di un esponente musulmano, “il dialogo di Dio con l’umanità”».

Il papa ha poi sottolineato l’attenzione che le Autorità dello Stato di Palestina, in particolare il Presidente Mahmoud Abbas, hanno verso la comunità cristiana, riconoscendo il suo posto e il suo ruolo nella società palestinese.

Nelle stesse ore Donald Trump ha “determinato che è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme capitale di Israele”. Il trasferimento dell’ambasciata non sarà comunque imminente e continuerà a restare a Tel Aviv per altri sei mesi, visto che Trump al termine del suo intervento ha firmato una nuova sospensione del Jerusalem Embassy Act, la legge approvata dal Congresso nel 1995 per trasferire la legazione, ma che ogni presidente prima di lui, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama. Sospensione che i presidenti Usa debbono sottoscrivere ogni sei mesi per bloccare gli effetti della legge del 1995. Questa è la seconda ed ultima volta che Trump firmerà il provvedimento che blocca l’attuazione della norma del 1995, confermando però di aver ordinato di iniziare i progetti per la realizzazione della legazione.

Sempre nello stesso giorno, al termine dell’Udienza Generale, dopo aver parlato del viaggio apostolico che ha compiuto in Myanmar e in Bangladesh, il Papa ha lanciato un appello: «Il mio pensiero va ora a Gerusalemme. Al riguardo, non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite. Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, e ha una vocazione speciale alla pace. Prego il Signore che tale identità sia preservata e rafforzata a beneficio della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero e che prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti».

Mi unisco all’appello del Papa. Anch’io sono stato a Gerusalemme; tre volte. In una di queste, vi ho soggiornato leggendo i luoghi e gli spazi mediante le pagine bibliche, guidato dai monaci di Bose. Un percorso spirituale che mi ha aiutato a vedere anche i cittadini di Gerusalemme. E così non ho solamente compreso. Io ho sentito l’urlo del desiderio di pace di alcuni, stoltamente soffocato da uomini dalla cattiva volontà. Gerusalemme è una città, ma è anche un giardino. È preghiera. È vita. È santa. È bellissima. Ed è di tutti. Ognuno di noi può, in tutta onestà, dire: “Io sono Gerusalemme. Io là sono nato”.

A proposito di molestie sessuali

Matteo Bordone, su il Post, ha dato voce pochi giorni fa a un mio dubbio a proposito della recente tempesta scatenata dalle rivelazioni di molestie sessuali degli ultimi decenni: negli Stati Uniti, nel Regno Unito e ora anche da noi. Ecco perché nelle mie considerazioni voglio partire da una citazione del suo bellissimo articolo:

“Anche se le sopracciglia si alzano e gli angoli della bocca puntano al pavimento, le distinzioni sono fondamentali. È vero che vengono prima le vittime, è vero che ognuno ha i traumi che ha, ma è anche vero che esiste la sostanza dei fatti. Quando qualcuno commette un omicidio, ci chiediamo con puntiglio se sia stato un incidente assoluto, un incidente causato dalla scarsa previdenza, un errore manifesto, un gesto violento finito male, un piano ben congegnato. È normale e giusto che lo si faccia per qualsiasi reato e qualsiasi contesto, per quanto sia arduo e doloroso. Ed è assurdo che, mentre i tribunali hanno questa cura minuziosa, noi che osserviamo il mondo diventiamo giustizialisti e colpevolisti, ci sentiamo più a nostro agio se leviamo di torno i dubbi, quando non ci abbronziamo alla luce del nostro rigore morale”.

Sì, mi sembra un buon punto di inizio: se nemmeno l’omicidio (l’omicidio!) può essere messo in una solo calderone con sopra scritto “omicidio”, da buttare tutto nella valle più profonda e oscura, cosa diremo della molestia (molestia) sessuale?

Ed ecco un altro punto. Venticinqe anni fa, che ci crediate o no, io fui oggetto di una molestia sessuale da parte di una donna. Non sto denunciando, come fanno certi moralisti pseudo-cattolici, il fatto che la donna in questione fosse vestita in modo provocante, così da provocare, appunto, la mia sensibilità e la mia debolezza: sto proprio parlando di espliciti gesti, di un contatto fisico imbarazzante e per me sconcertante.

La donna in questione, di cui non rivelerò mai il nome nemmeno sotto tortura (e poi spiegherò il perché), era una bellissima ragazza. Mi piaceva. Ma non per questo l’avevo mai apostrofata con parole improprie né tantomeno l’avevo sfiorata con un dito: giusto uno sguardo in più o uno sguardo più lungo, di quel centesimo di secondo che fa la differenza, al suo corpo snello, sano e affascinante.

Da uomo, da cristiano, e da teologo, rifletto da tanto tempo sul fatto che di solito il peccato è più veloce di noi: quando ci mettiamo a combatterlo, lui ha già fatto un po’ di strada dentro di noi. Gesù lo sa e perché non disperiamo ci dice che lo sa: “chi guarda una donna e la desidera – cito a memoria – ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”.

Ripeto che Gesù ce lo dice non per mostrarci che la lotta contro il male è durissima, ma per ricordarci che la misericordia di Dio nei nostri confronti è grande perché è motivata.

Comunque: la ragazza in questione mi molestò, cioè mi toccò per eccitarmi e mi fece intendere che avrebbe voluto avere un rapporto sessuale con me. Oggi la ricordo con simpatia e affetto: non accadde nulla, perché io avevo un po’ di senso morale, ma soprattutto avevo il senso del ridicolo (non mi sono mai sentito un campione di bellezza) e un po’ di senso di prudenza. In più, ero innamorato e prossimo al matrimonio, con la mia dolce e speciale moglie che mi è tuttora al fianco.

Non ho un ricordo sgradevole, né volontà di rivalsa, perché anni dopo io e la ragazza ci incontrammo di nuovo e riuscimmo a farci sia una risata sopra, sia una seria chiacchierata in cui lei mi parlò della sua infelicità affettiva, che l’ha tormentata e la tormenta (ormai) da tutta la vita.

Non l’ho “tradita”, cioè consegnata a nessun pettegolezzo, perché pensavo già allora e penso ancora che cercasse amore. Nel modo più sbagliato, certo. Perché da uomo, da cristiano, e da teologo, so che la via lungo la quale cerchiamo la felicità con il peccato è la stessa per cui troveremo la felicità per dono di Dio. Nessuno, infatti, pecca, se non perché cerca (disperatamente, in questo caso) un bene più grande.

Infine, da uomo ecc., credo nel perdono, nella crescita delle persone, nel valore delle scelte che contrastano anche il male che abbiamo compiuto davvero. Credo nell’uomo figlio di Dio, sempre.

E credo nell’amore e rispetto ogni sete d’amore, persino la più perversa. Perché so dove porta, perché so dove vorrebbe andare.

 

 

 

Tornare a pe(n)sare la vita con attenzione

Il cardinal Martini, più volte ha fatto uso di un adagio che non sempre è stato percepito bene e che possiamo riassumere così: “Meglio un non credente che pensa, che un credente che non pensa”. Naturalmente, questo significa che un credente capace di pensare la sua fede è davvero un valore aggiunto (e questo non lo si è sottolineato mai abbastanza). Ora, la mia impressione è che, negli ultimi decenni (da metà degli anni 90, almeno…), molti – credenti e non – hanno smesso di esercitare questo dono fondamentalmente che appartiene alla donna e all’uomo in maniera specifica: quello di “vivere pensando”. Vivere la famiglia, pensando; vivere il lavoro, pensando; vivere la fede, pensando. Pensiero non è teoria (anche se la teoria fa parte del sistema-pensiero); pensiero, anche etimologicamente, è “capacità di pesare il reale”, di “ponderare l’esistenza”, e di farlo con attenzione.

Il credente (ma anche il non credente) che pensa è, dunque, colei/colui che “pesa la propria vita”, che la misura su una bilancia ben tarata e adatta allo scopo. Il credente che pensa/pesa l’esistenza sulla bilancia del Vangelo e della tradizione cristiana. Ora, chiediamoci: chi mette ancora in opera questo “sistema”?

Per decenni, dicevo, sono scomparsi i maestri; alcuni li abbiamo dimenticati (chi legge ancora Milani, Mazzolari, Balducci, Turoldo… ai propri figli?); e abbiamo ridotto il credere a una serie di gesti sempre più distanti (perché poco pesati) dal nostro vivere. Così siamo diventati solo devoti. Abbiamo parlato senza neppure accorgerci dello scempio persino di atei devoti e ci siamo messi alla loro scuola.

E’ necessario tornare a pensare/pesare la nostra vita, prima che sia troppo tardi. Il primo passo per farlo, è ricordare che siamo parte di una storia. E che, in questa storia (che è comunque la nostra) ne va della vita (che è ancora la nostra), sia che crediamo sia che non crediamo.

Perciò sarà sempre meglio un non credente che pe(n)sa, che un credente che non pe(n)sa la vita con attenzione.

Se la sposa è single…

Ha destato curiosità (e forse anche un po’ di ilarità, qualche sconcerto ma tanti like…) la notizia di una giovane quarantenne che, fedele ad una promessa fatta qualche anno prima, ha deciso di celebrare il proprio matrimonio nonostante nel frattempo non si fosse fidanzata con nessuno. Sposa, ma single. Pur continuando a nutrire la speranza di trovare l’anima gemella, ha giustificato l’estremo gesto dicendo: “Non volevo rinunciare al giorno più bello della vita di una donna così come ad indossare un meraviglioso abito bianco, da vera principessa. Il mio è un messaggio d’amore verso se stessi». Qualche mese fa, anche un uomo, un quarantenne single è giunto alla medesima determinazione di sposarsi senza partner nella “convinzione che non potrò mai amare nessuno quanto amo me stesso. Anzi – ha aggiunto – amare se stessi è la cosa più bella che possa capitare a un essere umano: solo così si può raggiungere infatti la propria tranquillità interiore”. Non si pensi che si tratti di persone egoiste. Per quanto riguarda lo sposo-single, sappiamo che è impegnato in iniziative di solidarietà per l’Africa. Sinceramente, come non possiamo condividere le scelte di chi si fa del male, non possiamo condannare la gratificazione chi si vuole bene a tal punto di festeggiarsi. Non possiamo accettare però che si chiami “matrimonio” – che per definizione richiede una coppia – l’evento di un singolo. E tanto meno permettere che si riduca il matrimonio ad una coreografia di un giorno che non implichi una qualche forma di impegno per il futuro. Senza entrare nel merito di tutti gli aspetti e i distinguo giuridici e religiosi che la parola “matrimonio” evoca, c’è una irrinunciabile dimensione nel matrimonio che è quella della relazione con l’altro. Senza un partner, senza una relazione, non c’è matrimonio. Nemmeno se dovesse durare un giorno. Questi episodi – che saranno purtroppo emulati – mostrano chiaramente alcune delle più gravi malattie della nostra epoca: l’esibizionismo e il solipsismo. Apparire, a qualunque costo, in una qualunque forma e al di là di qualunque merito sostanziale, è lo pseudo-valore dominante, incentivato ed esaltato dalla pseudo-cultura dei social-network. Una pseudo-cultura nella quale il singolo si trova bene con se stesso, nella propria realtà virtuale, abitata da tante persone che però sono followers, mentre, con le persone reali, si fa sempre più fatica ad entrare in relazione. Perché la relazione significa confronto, ascolto, messa in discussione di se e mutuo arricchimento. Entrare in relazione con un’altra persona al punto di impegnarsi per il futuro non è facile, è impegnativo ed è una fortuna quando capita ma allora sì che è proprio il caso di festeggiarlo con un bel matrimonio.

Benvenuto don Mario

Don Mario Delpini agli inizi degli anni 80 insegnava greco ai ragazzi del ginnasio del Collegio San Pietro di Seveso, e io ero uno di loro. Era bravo, preciso e, vista la materia, non tanto simpatico. Io ebbi però l’occasione di conoscerlo e apprezzarlo per la sua spiritualità. Riuscì successivamente, grazie anche a quella esperienza di condivisione, a coglierne l’acuta ironia e simpatia. Aveva infatti fondato un gruppo di preghiera pomeridiano basato sulla spiritualità orientale: il gruppo san Sergio. Io vi avevo aderito con entusiasmo, insieme a qualche compagno. Don Mario conduceva la nostra preghiera partendo dalla spiegazione e contemplazione delle icone. Una, in particolare, rimase per sempre nel mio cuore: la Trinità di Rublëv, che qualche anno dopo fu proclamato solennemente santo in occasione dei festeggiamenti del Millenario del battesimo della Russia (1988).  Il teologo russo Pavel Florenskij disse che l’icona di Andrej Rublëv era divenuta una delle espressioni mistiche più elevate in quanto aveva tradotto in immagine la visione mistica di San Sergio di Radonez, il santo a cui era dedicato il nostro umile gruppo di preghiera. Don Mario si dimostrò in quell’occasione attento alle nostre fatiche e valorizzava le nostre individualità, incoraggiandoci anche con cartoline estive, a perseverare nella meditazione. Piccole cose. Eppure me le ricordo ancora e sono riconoscente. Mi fu utile più il suo esempio di tutte le spiegazioni che poi trovai nei libri o nei corsi teologici. Mi aiutò a fare una buona esperienza spirituale che mi permise di trovare il buono anche nelle scoperte successive.

Oggi monsignor Mario Enrico Delpini è il nuovo Arcivescovo di Milano e offre alla città uno sguardo spirituale per affrontare cristianamente gli anni a venire. Già dalle sue prime parole scorgiamo le tracce di un cammino: “Credo che il richiamo del Papa a essere una Chiesa in uscita sia un richiamo alla conversione, a un atteggiamento che deve vincere le paure, le inerzie […] L’indebolirsi del riferimento a Dio porta allo smarrimento riguardo alla speranza e alla perdita di stima di sé: non sentirsi vivi per uno scopo, per una vocazione, per una missione”. Don Mario pensa alla sfida ineludibile del lavoro, pensa a creare un tessuto di buon vicinato, ad avere un sentimento solidale, vincendo l’anonimato e la solitudine. Pensa ai giovani, alle famiglie. Il nostro nuovo Arcivescovo è diventato prete con il cardinal Colombo, del quale vorrebbe custodire l’impostazione organizzativa della Chiesa di Milano, mentre del cardinal Martini, che lo chiamò ad essere Rettore del Seminario di Milano, ricorda l’intensità nel leggere la Parola di Dio e l’abitudine a vivere una dimensione spirituale profonda. Martini gli ha insegnato a non essere mai reattivo in modo spontaneo, affrettato, ma sempre pronto a coltivare una capacità di meditazione, riflessione, di interazione con l’interlocutore facendo emergere il meglio che c’è nell’altro. Del cardinal Tettamanzi ha amato la cordialità, la vicinanza alle persone e l’individuazione delle ferite particolarmente presenti nel territorio. Il cardinal Scola, gli ha insegnato a fare i conti con la modernità e a custodire il tesoro del Magistero ecclesiale argomentandone la bellezza.

Vorrei augurargli, a nome di Synesio, ogni bene. E, come insegnava san Sergio, possa aiutarci a vincere l’odiosa divisione di questo mondo contemplando la Santissima Trinità.

E se persino la storia della carità non insegnasse più nulla?

Si legge persino nei libri di storia delle scuole medie: ai tempi in cui l’Impero romano era in grave difficoltà, con una irrisolvibile crisi economica e la sensazione diffusa che il mondo intero fosse stanco, i cristiani apparvero non prima di tutto gli esaltati membri di una nuova setta proveniente dall’Oriente, ma persone che dal loro credo un po’ sconcertante traevano conclusioni molto concrete: accoglievano tutti, abbattevano le barriere razziali e sociali, aiutavano i più poveri in modo continuo e organizzato. L’unione di intensa esperienza spirituale, forte senso della comunità e solidarietà efficace che cambiava il volto duro di una società competitiva fece la fortuna della nuova religione. Gliene derivarono riconoscimento pubblico, credibilità, influenza politica e culturale. I mille anni successivi ne furono segnati indelebilmente.

Nel corso dei secoli, la Chiesa ha sempre continuato a stare nel mondo, spesso difendendo il suo potere, la sua ricchezza e i suoi privilegi. Ma la cura per i più poveri non è mai venuta meno: e sempre si poteva dire che proprio lì stava, nonostante tutto, la credibilità dei santi, delle comunità e dei pastori. Chi di noi non ha mai detto o sentito dire: “Ammiro la Chiesa quando fa del bene, anche se non credo”?

E oggi? Oggi sta accadendo forse una fenomeno senza precedenti: la Chiesa (e non solo la Chiesa) criticata proprio per il suo darsi da fare a favore degli ultimi: carcerati, migranti, minoranze, lavoratori in difesa dei loro diritti. Ciò che fino a oggi si traduceva in credibilità e attirava rispetto, oggi suscita, quando va bene, sospetto, riserve, distinguo, e quando va male accuse e attacchi aperti.

È un fenomeno che non si deve sottovalutare: se la carità, con la sua millenaria storia, non ci insegna più nulla, chi lo farà?

CETRA CHE GUARISCE

Un dedalo di vialetti ben ordinati, segnaletiche ridondanti di nomi che incutono timore. Colori pastellati, linoleum liso e scale che sanno di fumo, dove si appostano gli irriducibili della nicotina. Un ospedale come tanti, fatto di ascensori anonimi, poltroncine allineate, infermiere indaffarate. Pediatria. Settimo piano. Giochi e caramelle dappertutto, dipinti sui muri sgargianti di arcobaleni che si rincorrono. La porta d’ingresso è sorvegliata come in ogni vero reparto che si rispetti. Mi fanno cenno di avanzare e io entro in questo antro di Peter Pan che molto poco assomiglia ad un ospedale. L’imbarazzo che coglie ogni adulto che visita un reparto di oncologia pediatrica è un misto imponderabile di divertito stupore e terror panico. Al pensiero che l’innocenza sia violata dalla malattia, che la sofferenza aleggi dove dovrebbe solo abitare il gioco. Sono qui per intervistare un dottore che ha fatto della felicità di questi bimbi la sua ragione di vita.

Di che cosa hanno bisogno gli ospiti del suo reparto?

Direi anzitutto di attenzione e rispetto. Attenzione, che è diversa da amore, ma non lo prescinde. E rispetto, del loro essere bambini, con i loro tempi di maturazione, i loro umori, le loro aspirazioni. Vivono qui un momento delicato della loro vita, molto spesso traumatico, lacerante. L’incontro con il limite, la malattia, l’esperienza dello “scacco”. E’ dura per noi adulti, figurarsi per loro! Eppure sanno trovare, non so ancora dove, una capacità di reazione e di riscatto alla malattia che li accerchia. Noi adulti spesso disperiamo della guarigione, loro quasi mai.

E la Cetra come entra in questo sforzo di guarigione?

Ho cominciato qualche anno fa, quasi per gioco. D’altronde qui l’aspetto ludico ha un ruolo terapeutico decisivo. Ho iniziato a portare in reparto la piccola cetra che mi era stata regalata da amici. Non avevo alcuna competenza musicale, se non quella sepolta dei miei anni di scuola media. Ma il semplice tocco di quelle poche corde ha risvegliato in alcuni dei miei ospiti (non li chiamo mai pazienti) inedite energie di – ecco, non saprei dire – riscatto. Soprattutto i casi più seri e difficili hanno mostrato di trovare nella sonorità della Cetra un’àncora alla quale aggrapparsi.

Quali sono gli ambiti di intervento?

Sicuramente quelli offerti dalle più recenti teorie della musicoterapia. Noi qui usiamo la cetra per curare i bambini autistici, i non vedenti, i gravemente prematuri.
Recentemente stiamo sperimentando nuovi percorsi anche con coloro che hanno problemi di apprendimento e disturbi del linguaggio. In questi casi, però, sono i bambini stessi a prendere in mano lo strumento e ad essere guidati passo passo alla scoperta delle sue straordinarie sonorità. Per fare questo ho dovuto frequentare dei corsi per apprendere a suonare in maniera meno rudimentale lo strumento; ad essi ho affiancato la frequenza a convegni e seminari di studio specifici in ambito clinico. I frutti verranno, ma certo vedere disegnate cetre alle pareti di un ospedale è già un bel risultato!

Donne di Pasqua

Roma, 14 aprile 2017, per la Via Crucis al Colosseo papa Francesco ha scelto le meditazioni di Anne-Marie Pelletier; è docente di Sacra Scrittura ed Ermeneutica biblica, è sposata e ha tre figli. È la quarta donna che prepara le meditazioni per le Vie Crucis dei Papi al Colosseo. L’ultima era stata madre Maria Rita Piccione, preside della Fondazione delle monache agostiniane, per il Venerdì Santo del 2011 con Benedetto XVI. Durante il pontificato di Wojtyla nel 1993 le meditazioni furono scritte da madre Anna Maria Canopi, abbadessa dell’abbazia benedettina “Mater Ecclesiae” e nel ’95 da sorella Minke de Vries, monaca della comunità protestante di Grandchamp (Svizzera). Anne-Marie Pelletier scrive, commentando la Settima stazione (Gesù e le figlie di Gerusalemme): “Il pianto che Gesù affida alle figlie di Gerusalemme come un’opera di compassione, questo pianto delle donne non manca mai in questo mondo. Esso scende silenziosamente sulle guance delle donne. Più spesso ancora, probabilmente, in modo invisibile, nel loro cuore, come le lacrime di sangue di cui parla Caterina da Siena […] E anche Etty Hillesum, donna forte d’Israele rimasta in piedi nella tempesta della persecuzione nazista, che difese fino all’ultimo la bontà della vita, ci suggerisce all’orecchio questo segreto che lei intuisce alla fine della sua strada: ci sono lacrime da consolare sul volto di Dio, quando piange sulla miseria dei suoi figli. Nell’inferno che sommerge il mondo, lei osa pregare Dio: «Cercherò di aiutarti», gli dice. Audacia così femminile e così divina!”.

In questi giorni ho letto un libro di Judith Schubert, docente di Studi religiosi e Teologia presso la Georgian Court University (New Jersey, Stati Uniti), della congregazione delle Suore della Misericordia: Le donne nel Nuovo Testamento (Edizioni Terra Santa).  È un libro ricco di approfondimenti utili per tornare a ciò che le Scritture dicono realmente sulla donna, un buon punto di partenza per riflettere teologicamente sul ruolo della donna nella Chiesa. Scrive Judith Schubert: “Veri modelli di apostolato fedele, le donne bibliche hanno ispirato non soltanto i membri delle loro comunità, ma anche i cristiani attraverso i secoli. Alcune di loro, di cui è riportato il nome, come Maria di Magdala, hanno avuto la reputazione e la vita marchiate nel corso dei secoli da un giudizio derivante da una lettura errata dei testi del Nuovo Testamento. Finalmente, nel ventunesimo secolo, è arrivato il momento di riconoscere tali errori e correggere la lettura sbagliata fatta in passato, affinché tali donne valorose ricevano il giusto riconoscimento e ritrovino il posto che spetta loro nella storia del cristianesimo”. La teologia è spronata, grazie anche a questi studi di genere, a prendere visione del cammino fatto dal popolo di Dio. Ed è chiamata a fare proposte che siano, al tempo stesso, fedeli al depositum fidei e creative, in risposta ai segni dei tempi e agli impulsi dello Spirito. A tal proposito, Piero Coda (mio carissimo amico Membro della Commissione teologica internazionale e della nuova Commissione di studio sul diaconato delle donne istituita da Francesco) dice: “L’entrare in gioco a pieno titolo della donna è di cruciale importanza per il futuro della Chiesa e dei popoli. La Commissione appena istituita è quindi un segnale significativo che papa Francesco vuole dare nell’attraversare questa soglia nuova. Non una questione formale, dunque, ma una presa di coscienza della realtà e della situazione ecclesiale, studiando il diaconato quale aspetto della questione femminile, per compiere poi passi concreti”.

 

Con il cuore in mano…

“Milan… col coeur in man!” (Milano con il cuore in mano) è un antico detto in meneghino che rende proverbiale la generosità milanese, citato pure da Papa Francesco nell’Angelus all’indomani della sua visita a Milano: “Ho constatato che è vero quello si dice: “A Milan si riceve col coeur in man!”.

La visita di Francesco a Milano ha fatto passare in secondo piano la contemporanea celebrazione dei 60 anni del trattato istitutivo dell’unione europea con ben 27 capi di Stato presenti a Roma. Milano, la Milano cattolica-praticante ma anche la Milano catto-curiosa, ha partecipato in gran massa a tutti gli eventi previsti con la partecipazione del Pontefice. Con grandi sacrifici (per la Messa a Monza prevista alle 15, i primi sono arrivati al mattino alle 7) e con grande entusiasmo al punto che – complice una regia e una scenografia da concerto rock – qualcuno ha paragonato l’accoglienza ricevuta da Francesco a quelle riservate alle pop-star.

Ma è a questo tipo di accoglienza che si riferisce Francesco quando cita il proverbio milanese?

Non dubito che vi sia stato sincero affetto e sincera fede in tutti coloro che hanno partecipato – anche attraverso le dirette televisive – all’evento di sabato scorso (25 marzo). Penso però che l’accoglienza l’abbia dimostrata prima di tutto Francesco e che, il cuore in mano, l’abbia mostrato sicuramente Francesco.

Lo dico pensando ad alcune scelte dall’elevato valore simbolico che ha voluto compiere (e che hanno avuto meno visibilità di altre) nella sua visita: la periferia e l’incontro con famiglie rom, islamici, immigrati e abitanti del quartiere, il carcere di San Vittore e il pranzo con alcuni detenuti, il dialogo (un po’ finto, ma gestito con sincera spontaneità) negli incontri con i preti e i cresimandi.

In una Milano che gira a due velocità, in cui le distanze sociali aumentano allontanando sempre di più il centro dalla periferia, Francesco è stato accolto con generosità ed entusiasmo, forse anche con un pizzico di fanatismo suo malgrado. Ma il ringraziamento in dialetto di Francesco, più che una constatazione, mi pare possa essere un ultimo invito: io son venuto con il cuore in mano, cari milanesi e vi ho fatto vedere cosa significa accogliere…

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