Un saluto a Eco

Un saluto a Eco

Assisto alla televisione ai funerali di Umberto Eco. Gente famosa e gente comune, parole ispirate, ringraziamenti. Il tono volutamente sereno del funerale laico.

Si è trattato di un grande personaggio, un uomo dal respiro mondiale. E già questo basterebbe per rimpiangerlo: non ne abbiamo molti e ne mancano non solo in Italia. È l’epoca dei particolarismi, che ci piaccia o no: l’epoca in cui cerchiamo sì radici (sforzo benedetto), ma in terreni poco profondi.

E mi piace ricordare due immagini.

La prima è un video di Umberto Eco, virale su internet, che si aggira nella sua vasta libreria di casa e il suo andare sembra non avere fine. E viene alla mente una cultura che oggi può accedere a informazioni per molti canali, e non solo quelli considerati angusti della carta stampata e rilegata, ma perde in densità quel che guadagna in velocità. È così e non ci si può fare nulla. E anche Eco lo sapeva bene. Se ne va prima di vedere le conseguenze di tutto questo cambiamento.

La seconda è lui, sempre in un video, che vestito da cattedratico (con toga barocca nera e collettone bianco) dice in sostanza, papale papale: “su internet possono esprimersi tutti, e questo è un bene, ma accade anche che abbiano diritto di parola tanti cretini che una volta si limitavano a blaterare al bar”. Anche le conseguenze di questo, Eco non le vedrà prodursi appieno.

Lo saluto e mi piace pensare che comunque alla cultura e alla bellezza ci abbia creduto. E che in quanto ha pensato, detto e scritto di buono ci siano un po’ delle risorse spirituali di cui comunque avremo tutti bisogno.

Il prezzo del figlio

Di fronte ad un bambino che nasce non si può che gioire, anche se non ci si può sempre rallegrare per le modalità e il senso che assumono.

Tobia Antonio non è il primo bambino nato grazie alla maternità surrogata (termine tecnico per non usare “utero in affitto”), una pratica illegale in Italia ma non in qualche altro Paese. Non sarà nemmeno il primo bambino cresciuto da una coppia omosessuale perché in Italia vi sono già altri casi autorizzati dal Tribunale dei Minori. Tutto bene quindi? Niente affatto.

Un primo rilievo critico – secondario ma non troppo – va fatto nei confronti di chi, personalità di riferimento politico e istituzionale, ha tranquillamente bypassato la legislazione dello Stato grazie anche a disponibilità economiche non comuni.

Ma la riserva più seria e decisa deve essere sollevata nei confronti della surrogazione della maternità (a pagamento o meno).
Il legame affettivo, intimo, profondo che si crea tra un bimbo e la madre durante i 9 mesi della gestazione non può essere ignorato e annullato da clausole contrattuali, e nemmeno in virtù di una estrema generosità della donna nei confronti dei terzi ai quali potrebbe voler donare il nascituro.

Non si mette in discussione le possibili attitudini genitoriali di una coppia omosessuale. Il punto è che non tutto ciò che la scienza consente corrisponde necessariamente anche al bene delle persone.
Occorre comprendere che la paternità e la maternità sono desideri legittimi che però non possono essere soddisfatti a qualunque costo e con qualunque mezzo. Avere un figlio è impegnativo ma non può essere il frutto di scambi biologici ed economici.

Avere un figlio non ha e non può avere un prezzo. Anche se può essere doloroso e difficile, accettare e arrendersi di fronte alla propria impossibilità o incapacità a generare – capita anche a molte coppie eterosessuali – non rende meno adatti e capaci di amare un bambino.

Ma ottenere un figlio attraverso un gesto compiuto pensando esclusivamente al proprio desiderio di amare non può essere spacciato per amore. Ciò che non considera il bene dell’altro ma gli impone la propria volontà si chiama egoismo. Il rischio che si crei una pericolosissima frattura tra processi biologici e dinamiche affettive è altissimo e la vicenda di Tobia Antonio ne è un esempio.

Come si può pensare che l’utero della madre surrogata agisca semplicemente come una provetta? Come non vedere il rischio (tutt’altro che ipotetico) di sfruttamento economico del corpo della donna? Come si potrà negare a Tobia Antonio di conoscere il volto della ovodonatrice alla quale si renderà conto di assomigliare? O di abbracciare la donna che lo ha partorito? Basterà il sincero affetto della coppia adottiva a colmare il disorientamento e il senso di abbandono che potrà sorgere in Tobia Antonio quando vorrà conoscere i particolari della propria nascita? Quali le ripercussioni psicologiche sulla costruzione della sua identità?

In definitiva, se anche potessimo accettare che sia lecito avere un figlio a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, vorremmo prima avere una risposta certa a questa domanda: qual è il prezzo che paga il figlio?

Ho visto il caso Spotlight

Ho visto “Il caso Spotlight”. E ne ho dedotto: che non è un film sulla pedofilia dei preti; che non è un film morboso; che non è un film d’azione; che non è un film da grandi performances attoriali… Non è, insomma, un sacco di cose che temevo fosse.

Ma è qualcosa di molto più interessante: è un film su come si dovrebbero fare le indagini giornalistiche (con buona pace delle “Iene”); è un film onesto verso le paure che incombono sulle società (anche civili, anche cittadine) chiuse e ristrette; è un film corale, in cui nessun attore sta sopra le righe, ma tutti sono necessari alla splendida riuscita.

Ed è un film sulla Chiesa. Su quello che non dovrebbe essere mai: una realtà che esiste per difendere se stessa affinché possa fare il bene.

Non vi è nessun “affinché” possibile: «Con tutto il bene che il vescovo ha fatto e farà…»; «Perché creare scandalo, quando si può tacere e sistemare le cose…»: non si può accettare nessuna di queste “scuse” quando si tratti di quel tema che è “il silenzio di fronte al male”. Sì, ecco. Sarà proprio il giornalista che conduce l’indagine a dichiarare di essere stato egli stesso il primo ad aver taciuto.

Ecco, dunque, che cosa è “Il caso Spotlight”: un necessario atto d’accusa al nostro (di uomini) silenzio di fronte al male, qualunque sia il male e chiunque lo compia.

#Oradellaterra

Sabato 19 marzo 2016: in ogni paese si spengono le luci per un’ora, dalle 20.30 alle 21.30. Una straordinaria ’”ola di buio” che comincia dalle isole del Pacifico e si conclude sulle coste atlantiche.

Un sondaggio eseguito dall’istituto GfK per conto del Wwf in occasione dell’Ora della Terra afferma che tre italiani su quattro considerano il cambiamento climatico un problema molto grave.

Voglia di cambiare o facili affermazioni radical chic che non reggono di fronte alla fatica di mutare profondamente le proprie abitudini? Si desidera davvero aiutare, nel prossimo futuro, le persone più povere del pianeta? Sì, perché sono loro che difficilmente potranno scampare senza i servizi (agricoltura, pesca, risorse forestali) del loro ecosistema.

Intanto assistiamo impotenti al loro migrare lontano dalla miseria aggravata dal degrado ambientale. Ultimi della terra! Neppure riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali.
Povera gente che porta il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa.

Il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con il quale papa Francesco condivide la speranza della piena comunione ecclesiale, afferma «nella misura in cui tutti noi causiamo piccoli danni ecologici», siamo chiamati a riconoscere «il nostro apporto, piccolo o grande, allo stravolgimento e alla distruzione dell’ambiente.

Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati.

Un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio».
Quando ho letto che per papa Francesco il divino e l’umano si incontrano nel più piccolo dettaglio della veste senza cuciture della creazione di Dio, persino nell’ultimo granello di polvere del nostro pianeta, mi sono detto: “Da oggi, spegni sempre la luce quando lasci una stanza”.

Pasqua, per fortuna

Noi di Synesio facciamo gli auguri di buona Pasqua a tutti.

Teniamo molto a questa festa perché ne percepiamo nello stesso tempo il carattere consolante e l’universalità.

“Pasqua”, cioè “passaggio”, è l’uscita di ogni umanità sconfitta dal suo stato di morte e di schiavitù.

È annuncio di speranza per il colpevole – verso una nuova vita – e per la vittima – verso un riscatto che salvi esistenza e dignità.

Pasqua è la festa in cui l’annuncio del Vangelo – di per sé ricco di cose sagge, come molti sanno e approvano – diventa definitivamente “troppo bello, per essere vero”.

Così, infatti, dovrebbe essere annunciata quella buona notizia: un fatto, una vittoria, alla quale Dio stesso intende associarci tutti, senza distinzioni. Oltre ogni limite, oltre ogni paura.

Sì, troppo bello, per essere vero. Se al Vangelo si dice di no (cosa ovviamente lecita) lo si dovrebbe dire per questo: perché chi ci crede mostra di credere ostinatamente che c’è luce (anzi: una grande luce) oltre l’oscurità.

E questa luce viene dallo stesso Dio che ha messo in piedi la baracca nella quale viviamo, che è sua e che egli mai respinge da sé, costi quel che costi.

Buona Pasqua nella settimana degli attentati di Bruxelles. La vita vincerà, è così. Anche se sembra troppo bello per essere vero.

Il design e l’oltre

Decodificare il nuovo millennio e individuare i cambiamenti che coinvolgono la progettualità è l’ambiziosa promessa della XXI Esposizione Internazionale della Triennale che si svolge a Milano dal 2 aprile al 12 settembre. Il ricco programma, distribuito in una ventina di sedi e in oltre 30 tra mostre e installazioni, sviluppa il confronto tra il design e alcuni temi chiave della modernità come la globalizzazione e la crisi economica ma anche la morte e l’eros, il destino e le tradizioni.
Il tema del confronto della produzione artistica del ‘900 con il sacro è raccontato attraverso le opere d’arte, fotografie, oggetti di arredo, progetti di architettura e composizioni musicali che compongono la mostra Design Behind Design ospitata al Museo Diocesano di Milano.

La rassegna – curata da Marco Romanelli, Carlo Capponi, Laura Lazzaroni e alcuni professionisti del team di Synesio per gli aspetti teologici e musicali – invita il visitatore ad andare al di là (behind) dell’oggetto per mostrare un ‘uomo creatore’, capace di guardare oltre la sua matita e di progettare l’oggetto in base a ‘regole’ che rimandano al senso oltreché alla necessaria funzione tecnica.

Il percorso espositivo è organizzato per aree tematiche e si apre con la sezione dedicata all’architettura. La mostra raccoglie eccellenze create dai più illustri artisti e designer che si sono confrontati con le tematiche del sacro e con alcune tipologie di arredo sacro (dalle croci ai calici, dai paramenti agli Evangelari). Particolarmente importante è la sezione della mostra dedicata alla pittura e alla scultura ove s’incontrano le opere di Lucio Fontana, Francesco Messina, Fausto Melotti, Emilio Greco e dipinti di Mario Sironi, William Congdon, Adolfo Wildt, Roberto Sambonet e William Xerra. Non manca un’analisi delle più interessanti ricerche fotografiche a soggetto sacro. Chiude l’itinerario una stanza della musica dove il visitatore potrà ascoltare come i più noti compositori del secolo scorso hanno dato “suono e voce” al sentimento religioso del proprio tempo attraverso la rivisitazione di forme antiche o la ricerca di nuove modalità espressive.

Inserita in un programma di così vasto respiro culturale come la Triennale, questa mostra sul “sacro” è tutt’altro che apologetica o confessionale, pur mantenendosi prevalentemente entro i confini dell’ambiente cattolico. “Design behind design” dice di quanta ricchezza può racchiudere l’animo umano e di come questa ricchezza interiore può lavorare la materia per dire ciò che vi intravvede Oltre.

 

DESIGN Behind DESIGN
Museo Diocesano di Milano (corso di Porta Ticinese 95)

2 aprile – 12 settembre 2016
Informazioni: tel. 0289420019

info.biglietteria@museodiocesano.it

La letizia (imperfetta) del nostro amore

Una frase di papa Francesco, dall’Esortazione apostolica Amoris Laetitia mi colpisce:

«Bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata…».

Detto in altri termini: tutti (non solo i cristiani) viviamo (o dobbiamo vivere, siamo chiamati a vivere) in tensione tra ciò che siamo concretamente oggi, con la nostra storia personale, faticosa e ferita, con i fallimenti accumulati nonostante tentiamo di “far bene” e ciò che vorremmo essere: felici, realizzati, integrati, capaci di amore…

La distanza tra ciò che siamo e ciò che siamo chiamati a essere, tra realtà ferita e desiderio di pienezza, è esattamente quel che ci mantiene in tensione, quel che ci permette di continuare a crescere, a voler essere “migliori”. Noi siamo, nel nostro cuore, “grano buono e zizzania” e nessuno deve permettersi di forzarci a estirpare la zizzania dal cuore (affinché non si perda, non si strappi anche il grano…). Chi ci ama, invece, deve accompagnarci nella nostra consapevolezza, che è lenta, faticosa, piena di ricadute: poiché questa “crescita nella consapevolezza” è il cammino (l’unico possibile) che è concesso al nostro cuore fragile.Siamo peccatori, sì. Ma siamo peccatori in cammino verso il bene.

Io sono così. Io sono questo. E questo sono tutti coloro che resistono nella fatica, pur cedendo talvolta per le ferite, ma non arrendendosi alla sfiducia nei confronti dell’amore.

La guerra di Piero

Il 13 aprile è morto a 89 anni Pietro Pinna (per tutti Piero), primo obiettore di coscienza al servizio militare nel 1948 e fondatore con Aldo Capitini del Movimento Nonviolento di ispirazione gandhiana in Italia.

Per la sua scelta nonviolenta e di rifiuto dell’uso delle armi, subì due processi militari e dovette scontare diciotto mesi di carcere militare prima di essere riformato per motivi medici.

Con Capitini, Pinna organizzerà la prima Marcia della Pace Perugia-Assisi nel 1961. L’anno successivo fonderà il Movimento Nonviolento e nel 1964 la rivista “Azione nonviolenta”.
Il ragionamento di Pinna era semplice: se la Repubblica “ripudia la guerra” (art. 11), allora anche io devo farlo rifiutando quegli strumenti, come l’esercito e le armi, che portano verso di essa e pensare a strumenti diversi.

Da qui nasce anche l’idea di un servizio ‘civile’ alternativo a quello militare e quindi un altro modo di difendere la Patria (art. 52)”.
Purtroppo oggi la parte più rilevante della sessione di Bilancio relativa ai fondi per il 2016, con i provvedimenti preparati dal ministro dell’Economia Padoan riguarda, come sempre, l’investimento in nuovi armamenti (su circa 21 miliardi di euro oltre 3,2 sono destinati al settore della Difesa, 2,3 in ambito aeronautico e 870 milioni per la Marina).

Aggiungendo altre voci, in totale quest’anno spenderemo  per nuove armi circa 4,65 miliardi di euro. Forse bisogna tornare con decisione agli esempi di Pinna, Capitini e tanti altri uomini di buona volontà e tornare a lottare per la pace.
Immagino la loro gioia l’11 aprile 1963, nel leggere la Pacem in terris di Giovanni XXIII: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci.

A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale.”

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