Ho visto “Il caso Spotlight”. E ne ho dedotto: che non è un film sulla pedofilia dei preti; che non è un film morboso; che non è un film d’azione; che non è un film da grandi performances attoriali… Non è, insomma, un sacco di cose che temevo fosse.
Ma è qualcosa di molto più interessante: è un film su come si dovrebbero fare le indagini giornalistiche (con buona pace delle “Iene”); è un film onesto verso le paure che incombono sulle società (anche civili, anche cittadine) chiuse e ristrette; è un film corale, in cui nessun attore sta sopra le righe, ma tutti sono necessari alla splendida riuscita.
Ed è un film sulla Chiesa. Su quello che non dovrebbe essere mai: una realtà che esiste per difendere se stessa affinché possa fare il bene.
Non vi è nessun “affinché” possibile: «Con tutto il bene che il vescovo ha fatto e farà…»; «Perché creare scandalo, quando si può tacere e sistemare le cose…»: non si può accettare nessuna di queste “scuse” quando si tratti di quel tema che è “il silenzio di fronte al male”. Sì, ecco. Sarà proprio il giornalista che conduce l’indagine a dichiarare di essere stato egli stesso il primo ad aver taciuto.
Ecco, dunque, che cosa è “Il caso Spotlight”: un necessario atto d’accusa al nostro (di uomini) silenzio di fronte al male, qualunque sia il male e chiunque lo compia.