Sparare al volto buono dell’occidente

Sparare al volto buono dell’occidente

Venti anni fa ho avuto il privilegio di conoscere padre Piero Parolari, medico e missionario del PIME in Bangladesh. L’ho incontrato in quel Paese poverissimo. Curava – ed è quello che fa ancora oggi – i malati di tubercolosi. Praticando cure che richiedono mesi e anni di paziente applicazione, insegnava alla gente a non sospettare della malattia come fosse una maledizione divina da accettare con fatalismo. Tornando ogni giorno a visitare i malati, mostrava che l’essenza del cristianesimo è la prossimità fedele di chi può offrire aiuto al fratello, qualunque sia il colore della sua pelle e il suo sentire religioso.

Non ha mai chiesto a nessuno di convertirsi al cristianesimo in cambio delle sue cure. Mi diceva, sorridendo: – Posso stare qui altri vent’anni a fare le stesse cose, con la stessa disponibilità – (e così è stato), – ma cambiare la mentalità di un popolo lento a comprendere l’universalità dell’accoglienza e la superiore dignità del povero è un compito che richiede intere generazioni.

Mercoledì 18 novembre, un commando di tre integralisti islamici ha sparato a padre Parolari almeno un colpo di pistola e lo ha ferito gravemente con un coltello, alla gola. La prossimità ostinata a un popolo ferito comprende anche la possibilità di essere colpiti dalle forze che lo vogliono accecare. Padre Parolari è vivo per miracolo. Guarirà. E guariranno anche i malati cui si è dedicato con cristiana determinazione.

Volo di ritorno

Di ritorno dal suo viaggio apostolico in Kenya, Uganda e nella Repubblica Centrafricana, il santo padre Francesco si è concesso come suo solito alle domande dei giornalisti accreditati che hanno tagliato, interpretato, forzato le parole del papa su scandali in Vaticano o l’uso del preservativo (non per niente risponde: La domanda mi sembra troppo piccola e mi sembra anche una domanda parziale. Mi fa pensare a quella che hanno fatto a Gesù, una volta: “Dimmi, Maestro, è lecito guarire di sabato?”.

Le sue risposte sono chiare, semplici, dirette, cariche di fede e mai senza i poveri. Sull’esclusione di parte dell’umanità dai diritti umani fondamentali, ad esempio, dice: “E’ un sistema economico dove al centro c’è il denaro, il dio denaro. Io ricordo una volta che ho trovato un grande ambasciatore, parlava francese, non era cattolico e mi ha detto: Nous sommes tombés dans l’idolâtrie de l’argent. Un grande dolore. Ieri per esempio, sono andato all’ospedale pediatrico: l’unico di Bangui e del Paese! E in terapia intensiva non hanno gli strumenti per l’ossigeno. C’erano tanti bambini malnutriti, tanti. E la dottoressa mi ha detto: Questi nella maggior parte moriranno, perché hanno la malaria e sono malnutriti.”.

Ecco la vera Porta Santa della misericordia. Un papa che va nelle periferie del mondo e cerca la propria conversione nelle lacrime di quei bambini.

Il presepe e la bandiera

I simboli sono fatti per aggregare. Nei simboli ci si riconosce. In occasione di eventi sportivi, ad esempio, tutti si ricoprono del Tricolore, simbolo di identità nazionale e di amor patrio. Lo sventolano tutti: i cittadini onesti come gli evasori fiscali, i corrotti, i corruttori, i mafiosi… Qualcosa di simile può capitare anche al presepe, eletto a simbolo di una identità cattolica da difendere. Il tema è delicato e ben si presta a strumentalizzazioni politiche, soprattutto in un momento turbato dalla paura.

Al di là delle diverse scelte operate da presidi scolastici e parroci, farebbe bene riflettere su quale sia lo spessore di questa identità cattolica da difendere attraverso un presepe che nelle case fa bella mostra di se, ma rischia di essere solo una sfarzosa decorazione. Come il Tricolore sventolato allo stadio anche da chi molto patriota non è.

La difesa di un simbolo identitario ha senso se esiste almeno la consapevolezza della necessaria quotidiana coerenza ai valori rappresentati dal simbolo si vuole difendere. Altrimenti è solo la sopravvivenza di un bel soprammobile o l’utilizzo di uno strumento di contrapposizione. Prima di brandire presepi occorrerebbe poi ricordare che il presepe, nel quale i praticanti ufficiali del tempo sono assenti, è popolato da persone ai margini come i pastori e da pagani provenienti da paesi lontani come i Magi.

Tutti attorno ad un bambino che diventato adulto dirà ai suoi seguaci che nessuno ha un amore più grande di quello di dare la propria vita. Un valore che ritrovo anche nel modo laico di concepire le relazioni tra identità diverse espresso nella frase attribuita a Voltaire: “Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinché tu possa dirlo”.

Non sacrificare una capra, metti in gioco te stesso!

«Misericordia io voglio e non sacrifici».

È parola di Dio dal libro di Osea, che cambia completamente la storia della relazione tra noi e il divino; che ci libera dalla schiavitù del sacrificare qualcosa a favore di un atteggiamento interiore e “utile”; che toglie la distanza tra il “fare qualcosa per Dio” (bruciargli un vitello? sgozzargli un agnello?…) e il “fare qualcosa per gli altri” (fare un elemosina, visitare un malato, ascoltare un depresso…).

Se ci fermiamo qui, però, c’è un problema: nella nostra mente, la frase del profeta rischia di produrre un frutto ambiguo, l’idea (falsa, ingannatrice e portatrice di pericolose lusinghe), per cui la misericordia e il sacrificio sono due cose antitetiche; insomma, che si possa essere misericordiosi senza sacrifici.

Il senso è invero l’opposto; Isaia lo precisa: «questo è il sacrificio che voglio: dar da mangiare…». Ciò da cui siamo liberati è, dunque, solo la nostra cattiva coscienza, l’idea che in questo nostro mondo si possa fare qualcosa per Dio che non sia fatto a vantaggio di un altro uomo.

Un augurio per il Giubileo che è appena iniziato, il Giubileo della misericordia?

Di essere liberati dalle illusioni devote, che ci tengono lontani dall’unico comando religioso sensato: «non sacrificare una capra, ma metti in gioco te stesso».

È la misericordia, semplicemente.

Natale, per fortuna!

Noi di Synesio facciamo gli auguri di buon Natale a tutti coloro che stanno cominciando a conoscerci. Siamo gente di cultura, d’arte e di pensiero, ma il Natale spiazza anche noi.

Ci sembra sempre che abbia il sapore di una specie di invadenza di Dio. È una festa che non chiede il permesso, che non rispetta l’andamento dell’economia, le tensioni internazionali, il variare delle mode, l’umore del momento. Non la si può organizzare quando le circostanze sono più opportune e l’animo è meglio disposto.

Il Natale viene, c’è, è qui.

Forse, per chi ci crede, è il caso di pensare, a Natale, che Dio è sì rispettoso della libertà umana, ma intanto continua con il suo disegno. Si muove. Entra. Prende posto. Pronto a farsi cacciar via, se si vuole, ma presente con un suo amorevole scopo.

E per chi non crede rimane l’ostinata attesa dell’uomo di una sorpresa efficace, che venga dal nulla, o dal destino. Una speranza, questa, di cui sorridere indulgenti, pensando ai bambini, che il meglio si aspettano sempre. Oppure di cui diffidare, restando un po’ più soli.

Meglio dunque che sia Natale, e che ciascuno trovi il bello e il buono anche in questo giorno. Come sarebbe bene fare sempre.

Auguri!

Viaggiatori nel tempo

L’uomo moderno crede di perdere qualcosa – il tempo – quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo.

Così diceva Erich Fromm e così fan molti già all’inizio di questo nuovo anno. Augurare un buon anno all’uomo di oggi può voler dire riscoprire la gioia di piantare un albero e vederlo crescere; sedersi e contemplare un quadro; ascoltare una canzone dall’inizio alla fine, e ascoltare pazientemente tutti, anche le persone moleste.

Forse è tempo di abbandonare le pesanti e devastanti attese su di sé e sugli altri per iniziare un viaggio nel tempo con un bagaglio leggero e prendersi cura di qualcosa o di qualcuno.

All’inizio di questo nuovo anno uomini con la volontà piegata al male hanno deciso di non perdere tempo. Sabato 2 gennaio 2016, in fretta e furia, hanno ucciso Gisela Mota Ocampo. La giovane donna si era insediata da ventiquattro ore come sindaca del comune di Temixco (Messico).

Nel corso della sua campagna elettorale aveva posto al centro del suo programma politico la lotta contro le organizzazioni criminali.
Noi che possiamo fare di fronte a tanto male? Come combattere i signori del momento presente?  Come non cedere all’inganno di ritenerci anche noi padroni del tempo? Forse respirando e sentendo con i nostri polmoni che il tempo non è nostro. Il tempo è di Dio e ci dona la speranza per viverlo con semplicità, con serenità, con pazienza.

Buon anno, dunque, fatto di vita vera, bella, buona come l’aria quand’è pulita.

Etruria, ieri e oggi

Fino a ieri, Etruria era solo un’antica area corrispondente all’attuale Toscana e parti delle regioni vicine.

Una ricca regione, abitata dal popolo degli Etruschi che per secoli sono stati un modello di sviluppo e di conoscenza. Una “civiltà”, quella etrusca, che riaffiora qualche secolo dopo con il dominio dei Medici e il Rinascimento.

“È in verità impressionante constatare che, per due volte nel VII secolo a.C. e nel XV d.C., pressoché la stessa regione dell’Italia centrale, l’Etruria antica e la Toscana moderna, sia stata il focolaio determinante della civiltà Italiana”. Così esclamava Jacques Heurgon, uno dei più illustri studiosi della civiltà etrusca. Scomparso alla fine del secolo scorso, non possiamo sapere se Heurgon avrebbe confermato, oggi, l’antico detto del due senza il tre…

E’ evidentemente toscano l’attuale Capo del Governo, ma è per lo meno prematuro posizionarlo in continuità sulla linea Etruschi-Medici anche se c’è da augurarselo. Non è certamente un modello di successo economico il crac finanziario della banca che porta il nome antico della regione toscana. Lungi da noi la tentazione di unirci al coro di chi strumentalizza politicamente la vicenda e dare giudizi che dovranno esprimere le autorità competenti.

Ci preme qui sottolineare che emerge la “civiltà” di alcuni amministratori – ma che forse è ben più diffusa – fatta di sprechi, abusi e atti omissivi che svuotano le casse di una banca e causano perdite enormi per azionisti e obbligazionisti.

Siamo andati a leggerci la relazione di Banca d’Italia ma anche il capitolo del Vangelo di Luca (16) dove si trova l’elogio ad un amministratore disonesto (ma per arrivare alla domanda esistenziale: “se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”) e di seguito, non a caso, il famoso episodio di Lazzaro e del ricco “epulone” che è un elogio alla carità come “investimento” per il futuro.

In termini più laici, è quello che stanno da tempo ormai sostenendo molti economisti: per risollevarsi dai guai della finanza creativa e della speculazione di amministratori disonesti e dagli sprechi dei moderni epuloni, l’economia deve ricercare una sostenibilità attraverso il recupero di valori, etica e solidarietà.

Non ci spiacerebbe se a ciò sapessero contribuire anche i contemporanei discendenti degli etruschi…

La volgarità della morale

E’ davvero una cosa curiosa che lo sport, da luogo di educazione di vita, sia diventato spazio sempre più determinato da un’economia distante proprio dalla vita reale, per interessi talmente grandi da renderlo uno dei maggiori luoghi di corruzione della nostra società (basti citare l’allontanamento dei presidenti dei due maggiori enti di governo del calcio, o la denuncia delle compravendite di partite nel tennis, o l’abuso – non solo l’uso – di doping sistematico, fino al doping di Stato come nel caso russo… potremmo proseguire…); è davvero cosa curiosa che lo sport si inalberi per un paio di parole volgari e omofobe dettate dall’ira del momento, al termine di un incontro di calcio, quando la cacolalia dei tifosi, dei calciatori, dei presidenti è tranquillamente concessa, e pochi giorni dopo la depenalizzazione del reato di ingiuria; è pure davvero cosa curiosa che, nel nostro quotidiano, in cui tutti pensano di poter fare quel che vogliono e nessuno è mai responsabile di nulla, persino la morale stia diventando un esercizio di volgarità.

Poiché questo accade alla morale odierna: di essere “volgare”, che significa “di bassa lega”, incapace di distinguere il diverso valore e peso della vita e dei comportamenti che la guidano.

Una morale che (per dirla col Vangelo) filtra il moscerino e inghiotte il cammello.

Dare voce

«Rammarico, dolore e sofferenza». Faccio mie le tre parole che Padre Giulio Albanese ha usato per descrivere il suo stato d’animo, dopo la chiusura della Missionary International Service News Agency (MISNA) l’agenzia di informazione da lui fondata nel 1997.

Come non condividere le sue parole? È una scelta fuori dal tempo e dalla storia, in contraddizione con l’inizio dell’Anno della misericordia e con la missione affidata a tutti noi da Papa Francesco: dare voce a chi non ha voce e raccontare le periferie del mondo. Una sfida culturale. E invece, proprio ora, mentre in regioni come la Repubblica Centrafricana, la Somalia, il Congo, succedono cose terribili, la MISNA viene chiusa.

MISNA era nata grazie all’aiuto degli Istituti missionari: 30 milioni di lire, un computer, un telefono dotato di due linee e due traduttori messi in uno scantinato della Basilica romana di San Pancrazio. Le notizie giungevano attraverso la rete dei missionari che non erano giornalisti, ma comunque molto bravi a rispondere alle cinque W della professione (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?) fornendo informazioni che nessun altro aveva. Era un esempio di “opera collettiva dell’ingegno”, un paradigma di comunicazione sociale.

Una struttura come la MISNA aveva bisogno di investimenti. Il 30 novembre del 2002 gli Stati generali dei missionari (a cui parteciparono 54 congregazioni) promisero sostegno, ma alla fine restarono solo in quattro a sostenere i costi: Consolata, Comboniani, Saveriani e Pime.

La Cei ha cercato di salvarla proponendo di:

1. coprire il bilancio per due anni;

2. fornire un service composto da Avvenire, TV2000, Radio in Blu e Sir;

3. offrire una persona per gestire la raccolta dei fondi.

Perché la proposta non è stata accettata? Perché non se ne parla? Perché non si urla contro questa chiusura? Perché?

Un artista diversamente disabile

Se uno spettacolo come il festival di Sanremo, competizione musicale dove il livello artistico delle canzoni in gara è secondario (e più scadente) rispetto allo show che le contiene, consente di far conoscere al grande pubblico un personaggio come Ezio Bosso allora ben vengano i Sanremo.

Bosso è un musicista compositore, pianista e direttore d’orchestra, costretto – come tanti altri, purtroppo – a cercare la propria affermazione all’estero. Un «enfant prodige» che ha iniziato a tenere concerti nel mondo da ragazzo, che ha suonato nei più grandi teatri e diretto tra le altre, la London Symphony Orchestra.

È sua la colonna sonora del film “Io non ho paura”. Dal 2011 è affetto da SLA. Appare in pubblico in sedia a rotelle accompagnato da un pianoforte con i tasti più leggeri rispetto alla norma (29 grammi contro 56) altrimenti non riuscirebbe a suonare.

Le sue parole dal palco dell’Ariston hanno colpito e commosso (virale l’immagine della violinista dell’orchestra con le guance solcate dalle lacrime). Capita spesso quando una persona disabile si presenta in pubblico e mostra di avere qualità straordinarie. Ma Bosso non mi è sembrato un “diversamente abile”. Preferirei definirlo un “diversamente disabile” perché ha mostrato una modalità originale di bypassare le difficoltà fisiche e psicologiche che la malattia gli ha creato.

Ne è esempio lo scambio con il sito satirico Spinoza: al twett «È davvero commovente vedere come anche una persona con una grave disabilità possa avere una pettinatura da coglione», il pianista ha risposto beffardo e per niente offeso: «È perché cerco di pettinarmi da solo». Non sono pochi i musicisti che superano la propria disabilità con la musica o che sono musicisti nonostante la disabilità.

Da Beethoven (praticamente sordo) ai contemporanei come il jazzista Michael Petrucciani (osteogenesi imperfetta o sindrome delle ossa di cristallo) o al direttore d’orchestra Jeffrey Tate (spina bifida). Forse perché la musica è una modalità di espressione che non declina i propri contenuti in materia, spazi o forme ma in emozioni. Forse è per questo essere “mondo parallelo”, fatto di suoni e di sentimenti, che la musica consente alle persone (disabili e non) che vi si dedicano di trovare una originale autenticità del proprio esistere e del proprio stare in relazione nel mondo.

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