Pensieri primaverili

Pensieri primaverili

Sarà perché la primavera invita a pensieri raccolti e intimi… sarà perché sto invecchiando (ipotesi ben più plausibile)… però in questi giorni sto riflettendo su cosa ci è rimasto di “cultura cristiana” e sono un po’ rattristato.

Una tristezza che mi viene dalla consapevolezza di un passaggio che ci ha accompagnato in questi anni (tanti!, cinquanta!!, il che conferma che sto invecchiando!!!) dalla fioritura post conciliare al grigiore di un cattolicesimo di retroguardia (non fosse per papa Francesco e la sua formidabile voglia di evangelizzazione, saremmo in uno stallo spaventoso).

Penso a figure come Milani, Balducci, Turoldo, Lazzati, Lubich, Bello, Martini… e poi mi guardo attorno alla ricerca di una voce profetica per l’oggi: l’unica immagine che mi sembra poter rendere bene l’idea di quel che ne ricavo me la offre un mio vecchio professore di greco: è come succhiare un turacciolo al buio.

Ma non voglio fermarmi a queste piccole nostalgie. Vorrei piuttosto che “ciò che ci è rimasto di cultura cristiana” fosse davvero l’essenziale. E allora provo ad alzare lo sguardo: quest’anno ci sono due centenari che appaiono diametralmente opposti, quello di Fatima e quello della Riforma. È curioso che chi celebra l’uno si sente in dovere di screditare l’altro: i cattolici devoti contro i cattolici protestanti (ossimoro? forse no). Come si fa a dialogare col mondo, con la cultura, con il futuro dell’uomo se non si riesce nemmeno a costruire un ponte all’interno della nostra stessa casa?

E così, fra tristezza e voglia di profezia, mi faccio coraggio e provo a dire che Fatima e Lutero non sono lontani per il credente in ricerca; poiché devozione e profezia sono le due facce del medesimo cammino. E il credente cristiano non può evitare né l’una né l’altra. Il Rosario e la Parola di Dio devono camminare insieme. Per troppo tempo non abbiamo permesso (soprattutto noi pseudo intellettuali) che lo facessero.

La teologia è donna

Abbiamo da poco ricordato, con una festa internazionale, le donne e la loro presenza in un mondo che fatica ad accettarle. Per i cristiani, ormai è una certezza.
Al di là di tanti stereotipi maschilisti duri a morire, la teologia è donna. Eccola lì. Nuova, fresca, fragile. Non ci si crede ma è così. Per rendersene conto bisognerebbe leggere la ricostruzione che ne fa la teologa Adriana Valerio, la quale rivisita la storia della Chiesa con un’ottica di genere; raffronta le esperienze maschili e femminili e ne ricostruisce l’intreccio di livelli e di circolarità all’interno della fitta trama del tessuto spirituale, culturale e politico. La teologa Lucia Vantini, su un altro fronte, ricorda come i pensieri “di genere” non possono essere facilmente scambiati per un invito a dimenticarsi dei corpi, e che sono portatori di una domanda essenziale: quali modelli di maschilità e di femminilità abitano la nostra cultura? La teologa e religiosa italiana Antonietta Potente, della congregazione dell’Unione delle Suore Domenicane di San Tommaso d’Aquino, ha sviluppato negli anni un’opera teologica a partire da un ripensamento della vita religiosa, alla luce di una spiritualità ancorata al presente che unisce mistica e politica. Il suo pensiero, si sviluppa verso un ripensamento del fare teologia a partire dalla riflessione ecologica e di genere. Quasi sulla stessa lunghezza d’onda è Teresa Forcades, del Monastero di Montserrat a Barcellona, una monaca benedettina, laureata in medicina e in teologia fondamentale, saggista nel campo della medicina sociale, della teologia trinitaria e di quella femminista. Vicepresidente dell’Associazione di Donne Europee in Ricerca Teologica (Eswtr) si dimostra in ogni suo intervento uno spirito libero e provocante, una vera rivoluzionaria (pacifica). Ci sono donne invece, come Cristiana Santambrogio, che partono dal loro essere discepole, dal loro essere donna e dal dialogo con altre donne – esegete e teologhe o lavoratrici della terra, del sociale, del quotidiano. Donne che hanno operato una scelta, forse parziale ma sicuramente consapevole. Nel suo libro, Maestro e discepole, Cristiana passeggia nel Vangelo di Luca, lo commenta ed esprime delicatamente un criterio non esclusivo. “Non esistono pericopi al femminile o femministe e altre no. Tutto è più sottile. Alcuni testi commentatissimi sono stati lasciati, altri scomodi sono stati presi. Le radici sono monastiche, i frutti laici. La novità resiliente del vangelo – e delle donne – fa da filo rosso”. Cristiana è traduttrice non solo per professione. Il suo è bilinguismo più radicale che accomuna molte donne. E la passione di far circolare significato fra mondi diversi, come Parola e quotidiano. Da anni di vita monastica francescana ha ricevuto il gusto del Vangelo che oggi approfondisce vivendo e lavorando a contatto con la terra e la sua gente, tra le vigne del Basso Vicentino.

Democrazia, cose da decidere… e voglia di menare le mani

Tutti a valutare – da lontano – questo Trump: nazionalista? decisionista? militarista? protezionista? fascista? Una cosa è certa: è stato votato e ha vinto le elezioni nel sistema che nessuno dei partecipanti ha mai contestato.

Ora penso: “il populismo sta o cade alla prova dei fatti”. Adesso non è più il momento dei proclami, o comunque è la fase in cui i proclami prima non bastano, poi disturbano, infine stufano. A parlare ora devono essere le decisioni: una certa difesa dei diritti esclusivi dell’America è davvero necessaria e utile all’economia e alla coesione sociale? La mano ferma e la piena assunzione di responsabilità aiutano o no a superare l’indecisione e lo stallo colpevole (e magari interessato) nelle cose che riguardano la vita di tutti? Il Paese ha sul serio bisogno di essere più rispettato e di avere maggior peso nelle trattative internazionali? L’economia oggi può essere incentivata riducendo il livello di concorrenza con i prodotti messi a disposizione dalla globalizzazione? Essere di destra, ed esserlo in concreto e senza timori, è uno dei modi di provvedere, sulla lunga distanza, al bene di tutti? Ci sono certamente risposte razionali a queste domande e a quelle che derivano da queste. E queste risposte saranno confermate o smentite dai fatti, nel giro di un paio d’anni.

Ma intanto vuoi mettere il piacere, questo sì del tutto irrazionale, di menare le mani? Magari c’è chi rinuncia persino a stare meglio, ad avere lavoro o un lavoro migliore, a vedere tutelati i propri risparmi, a offrire prospettive e valori ai propri figli… pur di menare le mani. Questa voglia, in sé, fa parte implicitamente o esplicitamente del modo di fare politica di Trump, della Le Pen, di Putin, di Salvini, di Grillo e compagnia bella. Ed è una voglia che con la democrazia non centra nulla.

Ben venga il confronto sulle loro proposte: tutte, comprese uscite dall’Euro e protezionismi e dazi e conservazioni a piacere. Ma per favore, smettete di promettere che finalmente con noi sarà possibile togliersi la voglia di menare le mani. Perché a questo piacere si rinuncia solo dopo che si è fatto tutto il danno possibile e se ne gode senza preoccuparsi di sottoporlo alla verifica di qualsiasi razionalità.

La bellezza che salva

La Dedicazione del Museo diocesano di Milano al cardinale Carlo Maria Martini, nel 90° anniversario della nascita, non è un semplice gesto di gratitudine nei confronti del Pastore che tenacemente lo volle. Martini ebbe una attenzione e una sensibilità profonda nei confronti dell’arte che va oltre il mero aspetto artistico. Invitando ad una lettura integrale, suggeriamo un passaggio della Lettera Pastorale del 1999, dal significativo titolo “Quale bellezza salverà il mondo?”

“Mi è entrata nel cuore la domanda che Dostoevskij, nel suo romanzo L’idiota, pone sulle labbra dell’ateo Ippolit al principe Myskin. “E’ vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la ‘bellezza’? Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza… Quale bellezza salverà il mondo?”. Il principe non risponde alla domanda (come un giorno il Nazareno davanti a Pilato non aveva risposto che con la Sua presenza alla domanda “Che cos’è la verità?”: Gv 19,38). Sembrerebbe quasi che il silenzio di Myskin – che sta accanto con infinita compassione d’amore al giovane che sta morendo di tisi a diciotto anni – voglia dire che la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore.
La bellezza di cui parlo non è dunque la bellezza seducente, che allontana dalla vera meta cui tende il nostro cuore inquieto: è invece la “bellezza tanto antica e tanto nuova”, che Agostino confessa come oggetto del suo amore purificato dalla conversione, la bellezza di Dio; è la bellezza che caratterizza il Pastore che ci guida con fermezza e tenerezza sulle vie di Dio, che è detto dal vangelo di Giovanni “il Pastore bello, che dà la vita per le sue pecore” (Gv 10,11). E’ la bellezza cui fa riferimento san Francesco nelle Lodi del Dio altissimo quando invoca l’Eterno dicendo: “Tu sei bellezza!”. E’ la bellezza di cui recentemente ha scritto il Papa nella Lettera agli artisti affermando: “Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella…La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza” (n. 3). E’ la bellezza di fronte alla quale “l’animo avverte una certa nobile elevazione al di sopra della semplice predisposizione al piacere sensibile” (Immanuel Kant, Critica del giudizio, § 59). Non si tratta quindi di una proprietà soltanto formale ed esteriore, ma di quel momento dell’essere a cui alludono termini come gloria (la parola biblica che meglio dice la “bellezza” di Dio in quanto manifestata a noi), splendore, fascino: è ciò che suscita attrazione gioiosa , sorpresa gradita, dedizione fervida, innamoramento, entusiasmo; è ciò che l’amore scopre nella persona amata, quella persona che si intuisce come degna del dono di sé, per la quale si è pronti a uscire da noi stessi e giocarsi con scioltezza.
Sento che ancora oggi la domanda su questa bellezza ci stimola fortemente: “Quale bellezza salverà il mondo?”. Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche. Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo: bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio. Occorre insomma far comprendere ciò che Pietro aveva capito di fronte a Gesù trasfigurato (“Signore, è bello per noi restare qui!”: Mt 17,4) e che Paolo, citando Isaia (52,7), sentiva di fronte al compito di annunciare il vangelo (“Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!”: Rom 10,15).

Per chi si riconosce amato da Dio e si sforza di vivere l’amore solidale e fedele nelle diverse situazioni di prova della vita e della storia, diventa allora bello vivere questa fine secolo, questo nostro tempo, che pur ci appare così pieno di cose brutte e laceranti, cercando di interpretarlo nei suoi enigmi dolorosi e conturbanti. E’ bello cercare nella storia i segni dell’Amore Trinitario; è bello seguire Gesù e amare la sua Chiesa; è bello leggere il mondo e la nostra vita alla luce della croce; è bello dare la vita per i fratelli! E’ bello scommettere la propria esistenza su Colui che non solo è la verità in persona, che non solo è il bene più grande, ma è anche il solo che ci rivela la bellezza divina di cui il nostro cuore ha profonda nostalgia e intenso bisogno.

MEF, MIUR, SIDI, PTOF, CLIL, ECDL

L’inarrestabile valanga di sigle travolge il mondo della scuola. In un proliferare incontrollato di acronimi navigano a vista i docenti meno pagati d’Europa e le famiglie che in questi giorni arrancano sui server sovraccarichi del ministero per iscrivere i propri figli a scuola. Si parla addirittura di interrogazioni parlamentari, mentre il Miur (leggi Ministero dell’Istruzione) si difende e spiega che la responsabilità del disservizio è del MEF (Ministero delle Finanze): parliamo del mancato pagamento degli stipendi a diverse decine di migliaia di supplenti. Pare che ci siano problemi sul SIDI (e te pareva!), il portale usato dalle scuole per pagare i docenti. Ma le scuole sono impotenti: il loro “borsellino elettronico” è vuoto. E così gli stipendi da ottobre scorso non si pagano, semplicemente perchè il capitolo di spesa del Miur per il 2016 è esaurito, punto e a capo. Si aspetta che arrivino i soldi dell’anno nuovo, alla faccia delle regole sulla contabilità pubblica che prevedono che se l’impegno è stato assunto nel 2016 il pagamento debba essere fatto con soldi del 2016 e non con quelli del 2017.

Nella scuola dove insegno ci sono supplenti che provengono dalla Sicilia che lavorano con grande competenza e passione da settembre: non hanno ancora ricevuto un euro di stipendio! Mi chiedo di cosa vivano, se non ci fossero i genitori con le loro pensioni risicate. Non è un proclama sindacale questo, ma la quotidiana e dura realtà di tanti, troppi immigrati della scuola. Di slogan la politica ne ha coniati fin troppi negli ultimi anni, eppure basterebbe lasciar fare gli insegnanti agli insegnanti, senza chiedere loro di diventare meri esecutori di astruse procedure imposte da chi in una classe non ha mai messo piede. Poca cosa rimane, al netto della burocrazia, del tempo appassionante dell’educare; passione che spinge i più volenterosi dei docenti ad indossare gli abiti del missionario questuante piuttosto che quelli del magister. Siamo insegnanti, – recitava uno slogan, questa volta sì, sindacale, – insegnanti appunto e vogliamo essere retribuiti, non premiati. Basterebbe questo per impedire agli acronimi di cui si diceva di divenire l’alibi che rende difficile ciò che è semplice, attraverso l’inutile per approdare al nulla.

Creare memoria

In questi giorni di “memoria” ho accompagnato una 5ª superiore di un Istituto Professionale, indirizzo Sociale, a vedere uno spettacolo ispirato a Se questo è un uomo di Primo Levi. La messa in scena non era all’altezza: i dialoghi deboli, monotona la teatralizzazione, complessivamente noiosa l’atmosfera. Peccato, ma capita. I 300 alunni/e presenti si sono comportati meglio del previsto. La poca confusione in sala era dovuta però più al disinteresse che alla compostezza. Alcuni cellulari accesi, alcuni sorrisini dovuti ai discorsi fatti sottovoce lontani dal dramma che si stava rappresentando. Anche per colpa di una attesa disattesa. I commenti alla fine dello spettacolo, infatti, erano univoci e inequivocabili:

“Non ci siamo emozionati. Meglio alcuni film in cui si piange”.

Forse è il limite della Giornata della memoria. Oggi l’emozione ha preso il sopravvento sulla ragione e – oggi – è difficile emozionarsi per qualcosa. Ammiro la compagnia teatrale che – con le poche forze a disposizione – ha cercato di istruire, condividere una preoccupazione, allertare sui pericoli incombenti. Ma invece di un riassunto didattico avrei preferito un azzardo artistico: un’immagine da approfondire, da scavare, da contemplare. Un’immagine come quella della preghiera di Khun:

«A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato “scelto”. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà al gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn» (da Primo Levi, Se questo è un uomo).

Levi dopo la sua mortale esperienza non credette più in Dio. Io, che credo in Dio e che non desidero mettermi al suo posto, Gli chiederei: «Perché, Dio. Perché non sputi a terra la preghiera di Kuhn? Che Dio sei? Chi sei, Dio?». E la risposta sarebbe lì da sentire, in quel silenzio assordante della sua Parola da tradurre per l’oggi, ridetta con nuovi linguaggi se si vuole raggiungere l’attuale generazione di giovani. Il linguaggio pubblicitario, Google, l’utilizzo delle App ha reso tutto più fruibile, più rapido, più esplicito. Allora ciò che è meno raggiungibile, più lento, più simbolico deve necessariamente reinventarsi in un linguaggio artistico che raggiunga le coscienze, la ragione e i sentimenti (che dovrebbero essere di fraternità) di una povera umanità. La sfida è aperta; gli artisti sono chiamati a riscrivere, a ridisegnare, a far risuonare le memorie dei sopravvissuti alla Shoah per aiutare la fragilità e la durezza di chi il male l’ha visto solo al cinema o letto solo nei libri proposti in classe. Per aiutare l’uomo a tornare uomo, non solo per considerarne la condizione disumana. «Considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no».

PER APPROFONDIRE:

Il verso dello sguardo

Ci sono momenti in cui, come accadde a Etty Hillesum,  le pene e i piccoli o grandi affanni “attraversano il nostro cuore e lo fanno dolorare”. Leggendo oggi ciò che accade nel mondo, le violenze efferate su mogli, fidanzate, madri e bambini, le guerre e i soprusi dei potenti, sembra che la nostra forza venga meno. “Dammi le parole e dammi la forza”, annotava Etty nel suo diario, verso la fine di un settembre 1942 ancora mite. Il mondo in cui ci rispecchiamo appare, di volta in volta, spietato o meraviglioso, a seconda di quanto ci lasciamo sopraffare dalle nostre pene. Possiamo abbandonarci allo sconforto, e vedere intorno a noi solo “un’umanità sofferente” di cui siamo parte, oppure tentare un colpo d’ala, osare uno slancio del cuore, provocare in noi “un’ondata di calore” che ci infiammi. Ed ecco che il miracolo avviene. Lo sguardo improvvisamente percepisce ciò che non coglieva: l’orizzonte, che è assai più ampio, i colori, vividi e brillanti, e una realtà che è poesia. Basta poco, serve solo che l’occhio davvero cerchi il dettaglio, lo desideri, se ne stupisca e innamori. Proprio come accade a Etty Hillesum quando, di un tratto, quel pomeriggio di settembre si rende conto che “esiste anche la realtà del ciclamino rosso-rosa”. E’ poco, è un fiore in un vaso sul davanzale che le si rivela per suggerirle che c’è sempre una bellezza che “si può scoprire dietro il chiasso e la confusione di questo tempo”. E allora, ecco il dono: il particolare che si offre al nostro sguardo è come un verso, la riga di una più lunga poesia. Stupirci ogni giorno per un giardino, un sorriso, un lembo di cielo, a dispetto del caos, è trovare il verso che rende giustizia al dolore e lo riscatta. Cerchiamolo. O meglio: riceviamolo come un balsamo, certi di trovarlo. Così le parole di Etty Hillesum si fanno preghiera: “Dammi un piccolo verso al giorno, mio Dio, e se non potrò scriverlo (…) allora lo dirò piano, alla sera, al tuo gran cielo. Ma dammi un piccolo verso di tanto in tanto”.  Per ognuno di noi esiste un verso al giorno. E, insieme, possiamo creare una poesia di ciclamini rosa o bianchi. Ci siano il gelo, il fuoco, il sangue o la paura: cerchiamo il verso. Troviamo la direzione dello sguardo.

Il “credibile disponibile” sta finendo?

Anni fa ho letto una pagina illuminante di Paul Ricoeur, il grande filosofo francese, sulla quale non ho mai smesso di riflettere. A proposito della condizione in cui si trova una società in ogni momento della sua storia, egli parlava di un certo livello e di una certa qualità di “credibile disponibile”.
Cos’è questa strana cosa? Potremmo dire che sia la quantità e soprattutto il tipo di cose in cui una società è disposta a credere. In definitiva, ciò che quella società spera di ricevere dalla sua storia prossima: dalle sue fortune, dal suo impegno in ogni settore. Ma anche da chi la guida e da chi rappresenta, o può rappresentare, aperture sul futuro, sul progresso, sul miglioramento delle condizioni di vita e sugli stati d’animo diffusi.
Il credibile disponibile riguarda ovviamente anche la sfera religiosa e le istituzioni che la rappresentano.

Ora la domanda che rivolgo al lettore è: qual è oggi, in questo tempo, il tuo credibile disponibile? Quale riserva di speranza ti è rimasta rispetto, ad esempio, alla politica, alla cultura, alla civiltà, alla fede?
E la stessa domanda si può rivolgere a tutta la nostra società: anzi, è dimostrato che il credibile disponibile che ci circonda condiziona, abbassa o deprime, il nostro.

E infine: non è forse grave responsabilità di chi si propone come guida degli altri (penso alla politica, in questo caso) il prendersi cura e non abusare del credibile disponibile?
Forse chi ci governa e chi ci vorrebbe governare stanno esaurendo il credibile disponibile loro riservato.
Oltre, c’è l’abisso e la violenza.
È accaduto.

Buon 2017… nel segno luterano di Bach

Nel 2017 saranno trascorsi 500 anni dall’anno in cui Martin Lutero presentò le sue 95 tesi, inviate ai vescovi il 31 ottobre 1517, episodio che segna l’inzio alla riforma protestante. Per questo, gli auguri di Capodanno li prendiamo da uno degli interpreti più illustri del luteranesimo, Johann Sebastian Bach. Il “maestro di cappella di sua altezza serenissima il principe di Anhalt-Cöthen” compose il suo “Piccolo libro d’organo” (in tedesco Orgelbüchlein, BWV 599-644),  una raccolta che non aveva solo fini didattici (per offrire “a un organista principiante il metodo per sviluppare in tutte le maniere un corale, in cui possa anche perfezionarsi nello studio del pedale, perché nei corali che qui si trovano il pedale è trattato in modo strettamente obbligato”) ma, come tutte le opere di Bach, il Piccolo Libro fu dedicato “All’Altissimo Iddio solo per onorarlo e al prossimo affinché si istruisca”.

Dei 46 corali dell’Orgelbüchlein dedicati a vari momenti dell’anno liturgico, 3 sono scritti per il Capodanno ed esprimono i sentimenti di augurio che vogliamo condividere e vi invitiamo ad ascoltare.

Il primo, (Helft mir Gottes Güte preisen – Aiutatemi a magnificare i benefici di Dio BWV 613) è un inno solenne e austero per il “tempo in cui l’anno volge al fine, il sole si inclina verso di noi e il nuovo anno non è lontano”: una visione un po’ crepuscolare dei mali del mondo ma con la speranza che vengano sconfitti nel prossimo futuro.

Helft mir Gottes Gute preisen

Il secondo, (Das alte Jahr vergangen ist  – Il vecchio anno è  trascorso BWV 614) è uno dei più belli della raccolta. ed è “una contemplazione elegiaca dell’anno passato, ferma ed asciutta, senza sorriso e senza lacrime, quanto di più serio sappia dire la musica” (P. Buscaroli, Bach) ma anche un ringraziamento per essere stati protetti dai pericoli.

Das alte Jahr vergangen ist

Conclude il mini-ciclo, un gioioso inno all’anno nuovo (In dir ist Freude – In te è gioia BWV 615), un corale che proviene, come spesso avveniva, da una melodia profana che in questo caso è addirittura un balletto: una grande fantasia caratterizzata da festosi scampanii e carillons, da aeree scalette e, nel finale, da una sequenza di trilli. Proprio come ci auguriamo tutti possa essere questo prossimo 2017.

In dir ist Freude

Auguri da Synesio

LA STELLA. Una poesia natalizia

di Edmond Rostand

Un grande augurio da Synesio a tutti quelli che cercano, perdono,

ritrovano le stelle senza mai venir meno!

Perdettero la stella un giorno.

Come si fa a perdere la stella?

Per averla troppo a lungo fissata…

I due re bianchi, ch’erano due sapienti di Caldea,

tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.

Si misero a calcolare, si grattarono il mento…

Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,

e quegli uomini, la cui anima

aveva sete di essere guidata,

piansero innalzando le tende di cotone.

Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri, si disse:

“Pensiamo alla sete che non è la nostra.

Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,

nello specchio di cielo

in cui bevevano i cammelli

egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

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